Il testo completo di un racconto breve: Ombre di vento sulla baia


 

Un alito di vento più fresco del solito la svegliò dal sonno che l'aveva colta, alle prime ore di quel pomeriggio, sullo sdraio in giardino. Sbadigliò stiracchiandosi e sbirciò la linea dell'orizzonte per avere un'idea di che ora potesse essere.

 

Il sole non più così caldo, un disco rosso che sembrava voler sfiorare la scogliera, le rammentò che era ora di mettere qualcosa nello stomaco, quindi si alzò con la lentezza dovuta all'avanzato stato di gravidanza, decisa a calmare quel languorino. Non volle rientrare in casa preferendo uscire dal cancelletto del giardino e scendere la scalinata che portava direttamente alla baia, da lì avrebbe fatto due passi nel “carugio” e respirato i profumi della sera: dalle finestre delle case dei pescatori, l'odore del soffritto e dell'aglio fresco si riversava nella strada, il via vai dei passanti animava il vicolo e dal Citto Bar le note di un lento sound accompagnavano i suoi passi.

 

Le piaceva rallentare ed indugiare davanti ad ogni portone per indovinare cosa vi si stesse cucinando; era un gioco, quello, che le aveva insegnato sua madre quando la portava a spasso da piccola e le insegnava le astuzie della vita. Sua madre... quanti ricordi! Insieme, ogni sera, andavano lungo la scogliera e di masso in masso arrivavano all'estremo limite dove respiravano la salsedine portata dagli spruzzi, sentendosi libere e felici.

 

Erano state molto unite sino al giorno in cui, senza alcun perché, sua madre era uscita dalla sua vita abbandonandola. Poi, inaspettatamente, vi erano entrati Giovanna e Vincenzo, due coniugi non più giovani che l'avevano adottata e amata come una figlia e lei, piano piano, era riuscita a ricambiare il loro affetto. Ora che era adulta e in procinto di partorire riusciva a ripensare al passato senza provare più tanto dolore, comprendendo come i figli dovessero essere aiutati a camminare nei sentieri della vita con le proprie forze: anche lei avrebbe fatto esattamente come sua madre…

 

In quella sera di vento, l'odore del mare arrivava sin lì e con esso il pungente odore di pesce della pescheria di U' Ginetu che, da quando aveva smesso di andar per mare, gestiva il commercio delle pescate del figlio e da sempre, per lei, aveva un occhio di riguardo. Non ricordava esattamente quando avesse iniziato a frequentarlo, sicuramente da quando nella sua vita era comparso "Pascià", suo compagno di giochi e grande amore.

 

"Pascià" doveva il suo soprannome al lato indolente del proprio carattere che lo faceva essere ultimo nei loro giochi: era stata lei ad insegnargli a giocare con le ombre del vento sulla spiaggia, ad inseguire i gabbiani per vederli staccare dalla battigia e sentirli vociare incolleriti. Gironzolavano sempre insieme, sulla spiaggia e nei vicoli, liberi tra i bagnanti ed i turisti, uniti ed indifferenti verso il mondo che li circondava.

 

Un giorno sull'Aurelia avevano visto un furgone parcheggiato: guardarsi negli occhi e decidere di nascondersi all'interno fu un tutt'uno. Di lì a poco l'automezzo era ripartito e loro, spaventati da quel gioco che gioco non era più, si erano rannicchiati uno vicino all'altra in attesa di vederne la fine; la corsa terminò a Rapallo, cittadina limitrofa, così diversa e per altro simile ai luoghi di sempre. Quando le ante posteriori vennero aperte, terrorizzati si fiondarono all'esterno; la sera stava calando e le loro ombre, tremolanti per la brezza, s’ingrandivano sino a sembrare grigi personaggi incombenti. Avevano corso a perdifiato lungo la passeggiata infilandosi nei vicoli, scappando dalla loro stessa paura; si erano fermati solo quando il profumo di una frittura li aveva riportati alla realtà: era ora di cena. Guidati dalla fame erano entrati nella trattoria senza sapere che che vi avrebbero trovato Giovanna e Vincenzo. Fu un sollievo vederli seduti a tavola e, sebbene temessero di essere sgridati, si erano avvicinati:

 

- Cosa fate qui, voi due? Non si può mai stare tranquilli! Meno male che vi sapevamo a casa...roba da non crederci. Stavamo quasi per andarcene, per fortuna che ci siamo incontrati. A casa faremo i conti. - Giovanna sembrava veramente in collera, ma poi vedendoli così spauriti aveva aggiunto - Vincenzo prendi in braccio Pascià che sembra crollare dal sonno, io prendo Fulvia. -

 

Era stata Giovanna a ribattezzarla così, perché lei era la classica "rossa" e tutto sommato col tempo vi si era abituata. A casa poi, non era successo nulla di tragico: era stato dato loro da mangiare e per quella notte Pascià aveva dormito sul divano.

 

Camminava lentamente, persa nei suoi pensieri, dondolando i fianchi; U' Ginetu l'aveva vista arrivare e si era affacciato sull'uscio apostrofandola in maniera gentile:

 

- Ecco "la Fulvia" sempre sola a bighellonare per i carugi, scommetto che a casa nessuno sa che sei uscita...Con la tua pancia, dovresti avere più riguardo per te! Giovanna m'ha detto che sei prossima al parto, mica lo farai qui? - le accarezzò affettuosamente il pancione e aggiunse - sembri un uovo di Pasqua, non vedo l'ora di vederne la sorpresa. -

 

Lei era abituata a quel genere di confidenze, soprattutto da U' Ginetu, perciò accettò quelle coccole verbali e soddisfatta da tanta tenerezza uscì sospirando. Nella sua memoria riapparve l'immagine di Pascià, lui così scuro e guardingo, così diverso da lei! Con la sua tenerezza, la sua vivacità, il suo amore l'aveva protetta in ogni attimo della giornata, finché la loro storia era durata.

"Dove sei Pascià? Ti cerco nei vicoli e gli amici mi dicono di rassegnarmi" sospirò alla sera guardando ancora una volta verso il sole senza scorgerlo. Doveva essersi tuffato all’orizzonte, perché del suo rosso era rimasto solo un alone che sembrava aver incendiato il cielo e il mare e quel suo riflesso ballerino, riusciva come sempre a catturarle i pensieri e suscitarle emozioni.

 

Andò sulla scogliera, là dove sapeva esserci i suoi ricordi. Senza saltellare come le avevano raccomandato di fare, era arrivata sull’ultimo masso; attraverso l’acqua limpida vedeva i gamberi tastare il terreno e le rocce semi sommerse: una timida danza di ritrosi ballerini di un serale minuetto.

Sarebbero un’ottimo spuntino…” pensò osservandoli con attenzione, ma poiché nelle sue condizioni tutto le costava fatica, aveva abbandonato l’idea di pescare e si era voltata per abbracciare con lo sguardo la baia, piccola come una quinta di teatro, di cui conosceva ogni anfratto compreso quello sotto al monastero dove la sua storia con Pascià, una notte, aveva vissuto l’incanto.

 

Immobile ripercorreva con gli occhi i luoghi a lei cari. Sul lato opposto alla scogliera, la strada s’inerpicava sino alla Mandrella, una villa con un grande parco che veniva aperta solo durante l’estate, quando i proprietari ne prendevano possesso per le vacanze, dove diverse volte era stata a cena con Pascià. Più sotto il giardino di casa sua. Dal suo luogo di osservazione poteva scorgere persino lo sdraio sotto la palma e il cancelletto, la sua via di fuga.

 

Si riconcentrò sulla villa: a quell’ora la luna sembrava spuntare dall’altana, il fatiscente terrazzino sul punto più alto del tetto, ed al contempo corteggiare il galletto segnavento. Una volta anche lei e Pascià erano stati là in cima per cercare di capire che razza di galletto fosse quello strano “voltagabbana” di ferro…Ricordò il terrore che aveva letto negli occhi dei proprietari quando si erano accorti che loro due erano lassù, sulle tegole. Che confusione ne era seguita! La luna non era riuscita a toccarla, ma il galletto sì: lui, vecchio e pieno di ruggine, non aveva retto ai loro giochi, si era staccato dall’asta che lo reggeva ed aveva penzolato, appeso per l’unica zampa, per il resto della stagione.

 

La luna…il sole… Regolavano la sua vita ed i suoi umori: al calore del sole s’addormentava, con la luna si destava. Quando il sole era alto voleva dire che Giovanna s’affaccendava in cucina così come quando si tuffava nel mare, e lei regolarmente faceva in modo di essere in casa. D’inverno era un’altra storia, non amava uscire. Il freddo e le giornate grigie la impigrivano, ma Giovanna la obbligava ugualmente facendole presente che sarebbe ingrassata a forza di poltrire. A lei non importava essere “in forma”, non da quando Pascià era scomparso lasciandola incinta:

 

- Fulvia… - le diceva Giovanna quando era in vena di confidenze – non sei mica l’unica ad essere stata sedotta e abbandonata! Hanno fatto persino un film.In fondo ti ha fatto un regalo, sei libera di crescere il tuo piccolo da sola, come meglio credi. E poi, sola, non lo sei. Ci siamo sempre Vincenzo ed io. –

 

Non aveva tutti i torti, ma non poteva pensare di prendere il posto di Pascià!” Si era lasciata alle spalle la scogliera. Sentendosi particolarmente indolenzita aveva rallentato l’andatura e dsi era avviata verso casa: le luci delle abitazioni sulla baia s’erano accese una dopo l’altra, regalando un’atmosfera da fiaba.

 

La Baia delle Favole”.U’ Ginetu la chiamava così perché secondo lui era capace di fare gli incantesimi: era successo a lui con la sua Maria, a Giovanna con Vincenzo ed anche a lei con Pascià. Sospirò. Aveva camminato sulla battigia e le mancavano pochi passi per raggiungere il cancelletto, ma sentiva che non ce l’avrebbe fatta: sapeva che era giunto il momento del parto. Chiamò perché Giovanna venisse a soccorrerla.

 

- Vincenzo corri, aiutami. Fulvia sta per partorire! -

 

Due mani calde e confortevoli la sollevarono dolcemente e la posarono nella cesta: tutto avvenne con calma. Mentre Giovanna le accarezzava la testa per rassicurarla e lei con piccoli, strozzati miagolii la ringraziava, Vincenzo, veterinario di professione, l’aiutava a far nascere i suoi piccoli.

 

Due neri come Pascià, una rossa come lei e una rossa e nera un po’ tigrata.